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Dedicata a Maria Boschetto di Di Yuleisy Cruz Lezcano)Nel contare, a volte, non si conta abbastanza ma si elencano statistiche, si registrano denunce, siaprono fascicoli. Ma si dimentica, troppo spesso, che dietro ogni numero c’è un corpo, un volto, unnome, una vita. E si dimentica soprattutto che ci sono morti che sembrano non appartenere anessuno, come quella di Maria Boschetto, 65 anni, collaboratrice scolastica, caduta mentre pulivauna finestra e morta tre giorni dopo nel suo letto, tra le mura di casa, lontana dalla scuola in cuilavorava e dal marciapiede dove aveva battuto la testa. Si è spenta così, in silenzio, come in silenziolavorava. Il suo nome non sarà inciso su una targa commemorativa e forse non verrà nemmenoriconosciuta come “morte sul lavoro”, perché la sua vita si è interrotta dopo essere stata dimessa,perché la lesione forse non è stata considerata abbastanza grave. Eppure è proprio in quel dettaglioche si misura la disattenzione collettiva, il nostro fallimento nel dare valore a ogni esistenza.Maria era ancora lì, a sessantacinque anni, a pulire vetri pesanti in una scuola ristrutturata solo ametà, era lì come ci sono milioni di altri lavoratori invisibili, tenuti in piedi dalla necessità più chedalla scelta, esposti quotidianamente a un sistema sociale, che sembra ignorare i suoi pilastri piùumili. Si contano oltre 78 mila infortuni, mille morti coperte da lenzuola bianche. Ma poi? Poi siriparte, come se nulla fosse. Nessun colpo allo stomaco, nessuna svolta. Solo qualche riga suigiornali e poi il silenzio. Il bianco di quei lenzuoli non è purezza, non è pace ma una coperta gelidasulle coscienze e noi, qui, a vedere di sfuggita il bianco dell’ipocrisia, il colore dell’oblio. Nonriconosciamo che negli occhi fissi nel vuoto, ci sono vite spezzate da un attimo eterno. La caduta,l’impatto, l’urto, il dolore, tutto si consuma in una manciata di secondi, e tutto viene inghiottito daun sistema che preferisce l’efficienza alla memoria, la produttività al lutto, l’apparenza alla verità.Maria è morta nella nostra indifferenza, ma non è un caso isolato. È il risultato diretto di una societàche ha fatto della prestazione il suo unico valore, che ha dimenticato che lavorare non dovrebbesignificare rischiare la vita. Viviamo dentro città che non sono più nostre. Le percorriamo senzaabitarle, senza viverle davvero e non passeggiamo: transitiamo, non sostiamo: consumiamo. Glispazi urbani si disegnano intorno a logiche di mercato, si svuotano di umanità, si riempiono dimerci e pubblicità. Lavoriamo in edifici vecchi, insicuri, spesso fatiscenti, ma ci dicono che va benecosì, perché “non ci sono risorse”. Le risorse però si trovano sempre per ciò che serve a chicomanda: armi, grandi opere, visibilità, mai per chi tiene in piedi davvero il paese.Intanto ci tolgono il tempo, quello vero, quello della riflessione, della lentezza, della costruzione dilegami. Viviamo secondo una narrazione che ci vuole produttivi, efficienti, disponibili, performanti,una narrazione che colonizza la nostra immaginazione, che ci fa dimenticare che potremmo viverediversamente. Ci hanno convinti che esistiamo solo se serviamo, solo se funzioniamo, solo seconsumiamo. Ma quando smettiamo di essere funzionali, quando cadiamo da una finestra o da unaimpalcatura, quando veniamo schiacciati da un trattore, quando la strada ci divora mentre andiamo atimbrare il cartellino, allora spariamo. Maria Boschetto è morta per una finestra che non reggevapiù, per un piede fratturato, una costola rotta, un pronto soccorso forse troppo svelto, ma soprattuttoè morta per un sistema che non riconosce più la fragilità umana come qualcosa da proteggere. Lasua morte è una crepa dentro la narrazione dominante, quella che ci vuole obbedienti, instancabili,sacrificabili, ma è anche un appello, un’occasione per smettere di contare solo i numeri, e iniziarefinalmente a contare le persone, a restituire nomi e volti alle vite che perdiamo. A ricordarci cheogni giorno, in questo Paese, c’è qualcuno che non torna a casa e che dietro ogni lenzuolo biancoc’è un grido che nessuno vuole sentire.
Viviamo in un tempo che ha smarrito il senso del tempo. Non il tempo misurabile, quello dei calendari e dei turni di lavoro, ma il tempo interiore, quello che ci lega alla memoria, alla storia, e alla profondità dell’esperienza umana. Siamo immersi in un presente continuo, iperaccelerato, in cui ogni evento si consuma e si dimentica alla velocità con cui viene prodotto. Così, anche la morte sul lavoro, uno degli scandali più radicati e persistenti del nostro tempo, diventa cronaca da archiviare, numeri da gestire, rumore di sottofondo nel frastuono della produttività.
Fino a svanire
Il lavoro sputa il sapore dolciastro
d’una fiala che dona un sonno crudele,
non riposo ma abbandono scavato,
una corda invisibile la stringe al gorgo.Cala lenta, come statua sciolta,
la stessa donna fatta di cera
che il tempo ha deformato in silenzio
mentre puliva finestre d’aria e polvere.Forse è un inganno, forse la morte
la vuole tenere nel fondo, sospesa,
come foglia strappata da un tronco vanitoso,
che si crede eterno e già si adorna
di gemme nuove, più lucide, più snelle.Lei giace in un letto che non la scalda,
ombra leggera nel fragore del presente.

